Esco per fare la spesa, ma ritrovo le chiavi dell'universo

Esco per fare la spesa con una strana sensazione di malinconia addosso, una di quelle che non ti stringono la gola ma ti appannano lo sguardo, come se qualcuno avesse passato un velo sottile davanti agli occhi. È Natale, o meglio: è quel periodo impreciso che gli gira attorno, quando le luci sembrano più stanche del solito e la fine dell’anno pesa come una valigia fatta male. Il 2025 è stato un anno balordo e instabile: uno di quelli che non riesci neanche a odiare del tutto perché ti ha tolto tanto senza nemmeno la decenza di spiegarti perché. Salgo in macchina senza pensarci troppo, chiudo la portiera come si chiude una parentesi e accendo lo stereo con un gesto quasi automatico, come se fosse un interruttore emotivo capace di azzerare i pensieri o almeno di confonderli abbastanza da renderli sopportabili. La musica è sempre stata così: non una soluzione, ma una tregua.

Partono le prime note di Tom Waits e l’abitacolo si riempie di una voce che sembra arrivare dal fondo di un bicchiere scheggiato. Il blues di Cold Cold Ground mi scivola addosso come asfalto bagnato, poi arrivano in sequenza New Coat of Paint, Shiver Me Timbers e Please Call Me Baby e mi pare di sentire il suono delle strade di Los Angeles, come in una magica e incantate serenata di quasi estate. Downtown Train accompagna i semafori rossi che scorrono come pause forzate, Jersey Girl mi riporta a un’idea di casa che non so più localizzare, Hold On mi prende per le spalle senza farmi promesse, e Innocent When You Dream chiude il cerchio con quella dolcezza storta che solo Waits sa rendere credibile. Senza accorgermene passo a Roy Orbison, a brani che non nomino perché non ne serve uno in particolare: basta quella voce che sembra cantare dal centro di un cuore gigantesco, melodrammatica senza vergogna, perfetta per una notte che non vuole spiegazioni. Poi è il turno di Bob Dylan, con You’re a Big Girl Now che mi parla di distanze emotive più che fisiche, e Slow Train che procede ostinato, come un pensiero che non riesci a fermare ma che, in fondo, ti dà anche un senso di direzione.

La strada scorre, le corsie si allungano come frasi ben costruite e io mi accorgo che sto guidando senza davvero guidare, lasciando che siano le canzoni a tenere il volante. Tom Petty entra in scena con quella sua capacità unica di rendere la resistenza qualcosa di leggero, quasi elegante, mentre i Pearl Jam portano una tensione più viscerale, un’energia trattenuta che vibra sotto la pelle. Non ho bisogno di scegliere un brano preciso: mi basta riconoscere quella miscela di rabbia e vulnerabilità che mi ha sempre fatto sentire meno solo. Poi, come una pausa necessaria, arrivano i Wallflowers. Le loro canzoni trascinano via un po’ di peso, come se qualcuno avesse aperto un finestrino invisibile. La tensione si attenua, il respiro si allunga, e per qualche chilometro la notte sembra quasi amica.

Mark Knopfler entra con The Last Laugh e improvvisamente la chitarra diventa una voce parallela, più ironica, più disincantata, ma non meno umana. Tracy Chapman con Fast Train mi ricorda che il movimento non è sempre fuga, che a volte è solo un modo per restare vivi senza fare troppo rumore. Leonard Cohen arriva con In My Secret Life e la macchina si trasforma in uno spazio interiore, un luogo dove le contraddizioni possono convivere senza litigare. Poi Nick Cave, con Into My Arms, spalanca una finestra emotiva che non sapevo di avere ancora intatta, e Bowie passa come un’ombra luminosa, lasciando dietro di sé quella sensazione di possibilità che non muore mai del tutto.

In mezzo a tutto questo, come un fiume sotterraneo che riaffiora, ci sono anche Jungleland e New York City Serenade di Bruce Springsteen. Le sento più che ascoltarle, come si sentono certi ricordi che non hanno bisogno di essere nominati. Sono canzoni che parlano di notti lunghe, di città che promettono e tradiscono, di romanticismi feriti ma ostinati. E poi Neil Young, con Cortez the Killer e On the Beach, che porta con sé un senso di perdita antica, quasi mitologica, e allo stesso tempo un’intimità ruvida, senza filtri. La sua voce è sabbia e vento, e mi accompagna mentre penso che forse quello che sto cercando non è qualcosa che posso trovare tra gli scaffali di un supermercato.

Quando finalmente arriva In the Garden di Van Morrison, tratto da No Guru No Method No Teacher, succede qualcosa di diverso. Non è un cambio di atmosfera, è una trasformazione. La musica non riempie più lo spazio: lo purifica. Le note sembrano avere una temperatura, un profumo, una consistenza. È come se la notte si fosse fatta improvvisamente più profonda ma anche più gentile. In quell’istante ritrovo una pace che non ha bisogno di spiegazioni, una serenità che non pretende di durare ma che, proprio per questo, è autentica. Van The Man riesce sempre a fare questo: a ricordarti che esiste una magia discreta, non spettacolare, che passa attraverso la musica e ti sistema qualcosa dentro senza chiedere permesso.

Ed è proprio in quel momento che penso a te. Non in modo nostalgico, non con rimpianto, ma con una gratitudine quieta. Penso a come certe canzoni riescano a creare ponti invisibili tra le persone, anche quando non si parlano, anche quando sono lontane. Penso che forse quello che stavo cercando non era conforto, né risposte, né tantomeno il banco gastronomia del supermercato. Cercavo una conferma silenziosa che, nonostante tutto, nonostante un anno balordo, nonostante il Natale e le sue ambiguità, esiste ancora qualcosa che tiene insieme i pezzi.

Spengo il motore nel parcheggio, resto qualche secondo fermo, lasciando che l’ultima nota svanisca. La notte mi accoglie senza giudicarmi. Entro a fare la spesa, sì, ma so che la parte più importante del viaggio è già avvenuta. È successo lì, tra una canzone e l’altra, mentre guidavo senza sapere esattamente dove stavo andando, cercando qualcosa che non si compra ma che, a volte, si trova.

Ero uscito solo per fare la spesa, senza un'idea precisa di dove mi avrebbe portato questa mia zingarata, come un annoiato e novello Odisseo, in preda al panico e in stato di confusione, come se lo Spirito del Natale dickensiano fosse arrivato in anticipo e avesse bussato sotto il cofano della mia vecchia Opel. 

Un po' come diceva il giovane Springsteen nel suo disco d'esordio più di cinquant'anni fa: 

"Alla fine i miei piedi hanno preso saldamente posto a terra, ma mi sono tenuto un grazioso posticino tra le stelle e giuro che ho trovato la chiave dell'universo nel motore di una vecchia auto parcheggiata. Mi sono nascosto nel calore materno della folla, ma quando mi hanno detto: "mettiti giù", mi sono alzato, oh oh oh, stavo crescendo!"


Esco per fare la spesa, ma ritrovo le chiavi dell'universo

Una storia di Dario Greco

DANCE ME TO THE END OF LOVE

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