Una battaglia dopo l’altra di PT Anderson
Ci sono film che non si limitano a raccontare una storia, ma che cambiano il modo stesso in cui pensiamo al cinema. One Battle After Another, l’ultimo lavoro di Paul Thomas Anderson, è uno di questi. Non è soltanto un adattamento di Vineland di Thomas Pynchon, non è soltanto un grande film con un cast stellare: è un’esperienza che ti trascina dentro, che ti lascia senza fiato e che continua a risuonare molto tempo dopo l’uscita dalla sala.
L’incontro inevitabile tra Anderson e Pynchon
Che Anderson prima o poi tornasse a confrontarsi con Pynchon sembrava scritto nel destino. Lo aveva già fatto con Vizio di forma, affrontando il romanzo più allucinato e disorientante dell’autore americano e trasformandolo in un noir psichedelico, dove la paranoia e l’ironia convivevano con la malinconia. Lì Anderson aveva mostrato di avere la sensibilità giusta per il mondo pynchoniano: la capacità di leggere dietro l’assurdo una ferita intima, dietro la complessità una musica segreta.
Con One Battle After Another il salto è ancora più radicale. Vineland non è un romanzo semplice da portare sullo schermo: frammentato, satirico, pieno di riferimenti politici e culturali agli anni Ottanta. Ma Anderson non cerca di tradurre ogni dettaglio, non fa l’errore di inseguire la fedeltà letteraria. Piuttosto, sceglie di reinventare il materiale, di trasformarlo in un poema visivo e sonoro che cattura lo spirito del libro senza esserne prigioniero. È il cinema che si misura con la letteratura non sul piano della trama, ma sul piano dell’energia.
Un cast monumentale
Al centro di questo vortice troviamo tre interpreti in stato di grazia.
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Leonardo DiCaprio porta sullo schermo un protagonista tormentato, Bob Ferguson, un uomo diviso tra il desiderio di proteggere e la consapevolezza di aver già perso troppe battaglie. DiCaprio non interpreta, abita il personaggio: ogni sguardo è un frammento di romanzo, ogni gesto porta il peso di una generazione smarrita.
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Sean Penn è l’antagonista ideale, il colonnello Lockjaw: cupo, carismatico, con una presenza scenica che diventa quasi mitologica. Penn non è mai monocorde: la sua rabbia nasconde paura, il suo potere porta con sé la fragilità di chi teme di essere dimenticato.
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Benicio Del Toro è l’elemento imprevedibile, il ponte tra la dimensione più surreale e quella più fisica. Con la sua recitazione sporca, viscerale, incarna la memoria e il caos, l’impossibilità di ridurre il mondo a uno schema lineare.
Anderson non li mette mai sullo stesso piano: li fa scontrare, li avvicina e li allontana come corpi celesti in collisione. Lo spettatore si trova intrappolato in un campo di tensioni da cui è impossibile distogliere lo sguardo.
La regia come ferita
Paul Thomas Anderson ha sempre mostrato un’attenzione maniacale alla messa in scena, ma qui raggiunge una nuova intensità. Non c’è mai un’inquadratura decorativa, mai un movimento di macchina gratuito. Ogni scelta sembra nascere da una necessità interna, da una volontà di scavare più a fondo nel dolore dei personaggi.
Le scene di battaglia non sono mai soltanto spettacolo visivo. Sono coreografie di violenza e silenzio che hanno la precisione di una partitura musicale. La macchina da presa non cerca l’epica tradizionale: entra nella polvere, si ferma sui dettagli, restituisce il senso di caos controllato che è proprio delle grandi opere.
E proprio come in There Will Be Blood, la regia diventa un atto di resistenza. Là dove il film del 2007 raccontava la nascita maledetta del capitalismo americano, One Battle After Another racconta il suo logoramento negli anni Ottanta, quando gli ideali sono ormai cenere e ogni battaglia sembra condannata a ripetersi.
La colonna sonora come respiro
In questo universo spezzato la musica non è un accessorio, ma una seconda voce narrativa. Anderson sceglie con cura brani che portano con sé intere epoche e che aggiungono strati di significato.
Quando esplode “American Girl” di Tom Petty, il film sembra aprirsi a un lampo di leggerezza, a un’illusione di libertà che però si consuma in pochi istanti. È un brano che parla di sogni americani già consumati, e nel contesto del film diventa un grido di vitalità disperata.
Poi arriva “Dirty Work” degli Steely Dan, e tutto cambia. Il cinismo e la dolcezza amara di quella canzone incarnano perfettamente lo spirito del film: personaggi costretti a compromessi, vite consumate dalla logica del potere. È come se Anderson avesse trovato nella musica la chiave per tradurre ciò che nemmeno le immagini riescono a dire.
A questi brani si affianca la partitura originale di Jonny Greenwood, cupa, ossessiva, capace di trasformare il silenzio in rumore interiore. Greenwood non accompagna le immagini, le attraversa.
La sintesi di un percorso
Guardando One Battle After Another, è impossibile non pensare a quanto questo film sia la sintesi di un percorso ventennale. Ha l’energia corale di Magnolia, l’ambizione epica di There Will Be Blood, l’intensità psicologica di The Master. Porta dentro di sé la paranoia di Vizio di forma e la dolcezza nostalgica di Licorice Pizza. È come se Anderson avesse raccolto tutti i suoi fantasmi e le sue ossessioni, e li avesse fatti esplodere in un’unica opera totale.
Perché è il miglior film degli ultimi quindici anni
Chiamarlo “il miglior film degli ultimi quindici anni” non è un’esagerazione, ma una constatazione. Non perché sia impeccabile: Anderson non cerca mai l’impeccabilità. Ma perché è necessario. Perché ha il coraggio di guardare negli occhi la nostra epoca, di raccontare il fallimento degli ideali senza però abbandonare del tutto la speranza.
Quando le luci si accendono e lo spettatore esce dalla sala, non porta con sé solo le immagini di una storia. Porta il peso di una battaglia combattuta anche dentro di sé. E questo, oggi, è ciò che il cinema dovrebbe fare: scuotere, ferire, trasformare.
One Battle After Another non è soltanto un film. È una testimonianza. È una ferita che sanguina ancora. È la dimostrazione che il cinema, quando incontra la letteratura e la reinventa con coraggio, può diventare la forma d’arte più potente del nostro tempo.
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