Astral Weeks di Van Morrison - Genesi di un Capolavoro
Introduzione poetica in vecchio stile
C’è un silenzio che vive nei solchi di un vinile dimenticato, un respiro che non senti finché non posi la puntina sul nero lucido e lasci che il tempo si srotoli. Non parlo dei dischi perfetti, quelli incorniciati nei negozi vintage o nelle collezioni maniacali di audiofili con guanti bianchi. Parlo di quelli rovinati, graffiati, con copertine sgualcite e angoli mangiati dall’umidità – dischi che qualcuno ha amato fino a consumarli, poi abbandonato in una soffitta o su uno scaffale di un mercatino, dove aspettano un nuovo custode. Ho trovato uno di questi tesori qualche mese fa, in un negozio dell’usato a pochi passi da casa. Era un’edizione di Astral Weeks di Van Morrison, il 1968 che sembra un sogno febbrile messo in musica. La copertina era strappata sul bordo, il vinile aveva un graffio visibile che attraversava il lato A come una cicatrice. Costava due euro, un prezzo che diceva tutto: non era più un oggetto di valore per qualcuno, ma per me era una porta. L’ho portato a casa, ho pulito la polvere con un panno morbido, e ho acceso il giradischi – un vecchio Technics che mio zio mi ha lasciato anni fa, con un ronzio che è quasi musica anch’esso. Il primo brano, Astral Weeks, è iniziato con un crepitio, un fruscio che sembrava il rumore di foglie secche sotto i piedi. Poi la voce di Morrison è entrata, fragile ma selvaggia, come un vento che soffia attraverso un bosco irlandese. Il graffio si è fatto sentire a metà di Beside You – un salto, un loop di due secondi che ripeteva “to have been beside you” come un’eco ossessiva. Non l’ho fermato. Ho lasciato che il difetto diventasse parte della canzone, un’imperfezione che rendeva quel disco unico, mio. Non era la versione pulita che trovi su Spotify, ma un oggetto vivo, con una storia incisa nei suoi solchi. Mi sono chiesto chi l’avesse ascoltato prima di me. Forse una ragazza negli anni Settanta, con i capelli lunghi e una sigaretta tra le dita, che lo suonava fino a tarda notte in una stanza piena di libri e sogni. O un uomo più vecchio, che lo comprò dopo un concerto di Morrison, quando la voce del cantante era ancora un fuoco giovane. Il graffio poteva essere il risultato di una festa troppo rumorosa, una puntina caduta per errore, o semplicemente il tempo che consuma tutto. Ogni vinile usato è un diario muto, e io ero lì a decifrarlo, a immaginare le vite che aveva sfiorato. C’è qualcosa di sacro in questi dischi perduti. Non sono solo musica – sono reliquie di un’epoca in cui ascoltare un album era un rituale. Dovevi alzarti, girare il lato, pulire la puntina con un pennellino. Non c’era lo skip, non c’era l’algoritmo a suggerirti cosa sentire dopo. Era un dialogo tra te e il suono, un patto che richiedeva attenzione. Oggi, con lo streaming, la musica è ovunque, ma raramente la senti davvero. Un vinile graffiato ti obbliga a fermarti, a notare ogni scricchiolio, ogni imperfezione che diventa parte della narrazione. Ho continuato ad ascoltare Astral Weeks quel giorno, fino a Slim Slow Slider, dove il flauto e la voce di Morrison si intrecciano in un lamento che sembra durare per sempre. Il graffio non c’era più, ma il disco portava ancora i segni del suo passato – una leggera distorsione, un’eco che non dovrebbe esserci. Mi sono seduto sul divano, con una tazza di caffè ormai freddo, e ho pensato a quanto fosse strano che un oggetto così fragile potesse sopravvivere a decenni di abbandono. Mi ha fatto pensare alla mia vita, ai momenti che graffiano l’anima e lasciano cicatrici, ma che in qualche modo ci rendono più veri. I vinili perduti non sono perfetti, e forse è per questo che li amo. Non promettono un suono cristallino o un’esperienza impeccabile. Promettono un viaggio – imperfetto, rumoroso, umano. Quel giorno, Astral Weeks non era solo un album: era un compagno, un testimone di vite passate che si intrecciava con la mia. E mentre la puntina si alzava alla fine del lato B, il silenzio che seguiva era più forte di qualsiasi nota.
Astral Weeks di Van Morrison, genesi di un capolavoro
Astral Weeks, pubblicato il 29 novembre 1968 dalla Warner Bros. Records, è uno degli album più enigmatici e celebrati di Van Morrison, un’opera che sfugge a ogni definizione e vive come un sogno inciso su vinile. Non è solo il secondo disco solista del cantautore nordirlandese – dopo il pop leggero di Blowin’ Your Mind! (1967) – ma un viaggio che intreccia folk, jazz, blues e poesia in un tappeto sonoro che sembra respirare. È un album che Morrison ha descritto come “un’opera senza tempo”, e la sua storia è quella di un artista che, a 23 anni, trasformò il caos della sua vita in un capolavoro eterno.
Le origini - Da Belfast a Boston, e in mezzo un contratto spezzato
George Ivan Morrison nasce il 31 agosto 1945 a Belfast, Irlanda del Nord, in una famiglia operaia dove la musica – blues, jazz, gospel – è un’eredità quotidiana. Suo padre, George, possiede una collezione di dischi che include Muddy Waters e Lead Belly, mentre sua madre, Violet, canta ballate irlandesi. A 15 anni, Van lascia la scuola per unirsi ai Monarchs, una band locale, e nel 1964 fonda i Them, che con Gloria diventano un nome del garage rock britannico. Ma il successo è breve: nel 1966 i Them si sciolgono, e Morrison firma un contratto con la Bang Records di Bert Berns a New York. Il primo album solista, Blowin’ Your Mind!, esce nel 1967 senza il suo pieno consenso – Berns pubblica brani come Brown Eyed Girl (un hit da 3 milioni di copie vendute) contro la volontà di Morrison, che detesta il controllo imposto. Quando Berns muore d’infarto nel dicembre 1967, Morrison è intrappolato in un contratto che lo lega alla vedova di Berns, Ilene. Bloccato negli USA per problemi di visto e senza risorse, si trasferisce a Boston nel 1968, vivendo in un appartamento modesto a Cambridge con la sua fidanzata Janet Planet. È qui, in un momento di crisi, che Astral Weeks prende forma.
La creazione - Un’esplosione spontanea
Nell’estate del 1968, Morrison suona in piccoli club di Boston con una band acustica – il flautista John Payne, il chitarrista Brooks Arthur – affinando canzoni nate da poesie scritte a mano. “Avevo queste visioni,” dirà anni dopo, “immagini di Belfast, di giardini, di un’infanzia che non era mai stata lineare.” I brani di Astral Weeks – otto in totale – non sono semplici canzoni, ma flussi di coscienza: Madame George, Cyprus Avenue, Slim Slow Slider. Sono storie di nostalgia, amore perduto e redenzione, cantate con una voce che passa dal sussurro al ruggito. Il produttore Lewis Merenstein, ingaggiato dalla Warner dopo che Morrison si libera dalla Bang, organizza le registrazioni a New York, ai Century Sound Studios, tra il 25 settembre e il 15 ottobre 1968. La band è composta da musicisti jazz di altissimo livello: Richard Davis al contrabbasso, Connie Kay (della Modern Jazz Quartet) alla batteria, Jay Berliner alla chitarra classica, Warren Smith Jr. alle percussioni. Morrison arriva con poco più che accordi e testi, lasciando spazio all’improvvisazione. “Non c’erano spartiti,” ricorda Davis. “Van cantava, e noi lo seguivamo come in un sogno.” Le sessioni durano tre giorni, con la maggior parte dei brani registrati in poche take. La voce di Morrison è catturata dal vivo, separata dagli strumenti da una cabina di vetro, un dettaglio che dà al disco il suo calore intimo.
Il suono - Un’anima che respira
Astral Weeks non è folk, non è jazz, non è blues – è tutto questo e altro. Il contrabbasso di Davis pulsa come un cuore, la chitarra di Berliner intreccia arpeggi delicati, il flauto di Payne (aggiunto in overdub) danza come un vento leggero. Madame George, lunga quasi 10 minuti, è un’elegia a un’Irlanda perduta, con versi come “the loves to love, the loves to love” che si ripetono come un mantra. Cyprus Avenue è un ritorno a Belfast, un’ode a un viale della sua giovinezza, mentre Slim Slow Slider chiude il disco con un lamento fragile, quasi un addio. Il mix finale, curato da Merenstein, aggiunge archi discreti che amplificano l’atmosfera senza soffocarla.
L’accoglienza e l’eredità
All’uscita, Astral Weeks vende solo 15.000 copie nei primi mesi, un flop commerciale rispetto a Brown Eyed Girl. La critica, però, lo osanna: Lester Bangs lo definisce “il disco più umano mai fatto” nel 1979, e Rolling Stone lo piazza al 19° posto nella lista dei 500 migliori album di sempre (aggiornata al 2020). Col tempo, diventa un culto: artisti come Bruce Springsteen, Patti Smith e Nick Cave lo citano come influenza. Morrison stesso lo considera “un momento di grazia,” ma raramente ne parla – un’opera che sembra sfuggirgli, come un sogno che non può rivivere.
Un vinile che sussurra ancora
Astral Weeks è più di un album: è un vinile che respira, graffiato dal tempo ma vivo. È il caos di Belfast, la solitudine di Boston, l’anima di un uomo che canta per salvarsi.
Scritto con il contributo di GROK 3 BETA
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