La fragilità come condizione del bene: forme archetipiche e narrazioni moderne del conflitto tra luce e ombra

Introduzione

Nelle narrazioni che raffigurano il conflitto tra Bene e Male, dall’antichità fino alla cultura pop contemporanea, si ripete con insistenza una dinamica visiva, drammatica e simbolica: le forze del Male appaiono dominanti, organizzate, numerose e travolgenti, mentre il Bene sembra minoritario, fragile, incerto, incapace di imporsi con la forza. È un tema che affiora nella poesia The Second Coming di William Butler Yeats, dove “i migliori mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di intensità appassionata”; emerge con potenza nella Terra di Mezzo di Tolkien, dove i piccoli Hobbit devono affrontare la potenza titanica di Sauron; ritorna in The Stand di Stephen King, dove una comunità minuta e vulnerabile affronta un avversario carismatico e apparentemente invincibile; e si riflette nella trilogia originale di Star Wars, dove la Ribellione è piccola e disorganizzata rispetto al dominio tecnologico e totalitario dell’Impero. Stessa dinamica anche in Dune di Frank Herbert, in cui Casa Atreides, guidata non dalla paura ma dalla capacità di riconoscere la fragilità come fondamento dei legami umani, si oppone al dominio predatorio e onnivoro degli Harkonnen: la luce appare più incerta, più esposta al rischio, mentre l’ombra sembra compatta e inamovibile.

Questa struttura non è casuale. Essa risponde a una logica antropologica e simbolica precisa. Il Bene, se rappresentato come potente nello stesso senso del Male, perderebbe la propria identità morale: diventerebbe dominio, imposizione, controllo. Per questo, nella tradizione occidentale e non solo, il Bene appare spesso inerme, esposto, sacrificabile, mentre la sua forza si manifesta non nella potenza, ma nella fedeltà a un principio.
La fragilità non è allora un difetto, ma la condizione di possibilità del Bene.

1. Le radici archetipiche della sproporzione

Prima ancora delle narrazioni religiose o letterarie, le culture umane hanno costruito una concezione del Bene come resistenza, più che come supremazia. Si pensi al mito di Prometeo, che dona il fuoco agli uomini e per questo subisce una punizione eterna; o alla figura di Ulisse, che vince non tramite la forza, ma tramite l’astuzia; o al racconto biblico di David contro Golia, dove la vittoria nasce dal coraggio e dall’intelligenza, non da uno scontro equilibrato. Queste storie suggeriscono che il Bene trae la sua forza non dal potere, ma dalla capacità di sfidare un destino apparentemente già scritto.

Già nelle religioni abramitiche, il Bene non è rappresentato come una forza onnipotente che schiaccia, ma come una presenza che chiama e non costringe, come una relazione che richiede risposta. La libertà umana, centrale nella tradizione ebraico-cristiana, implica che il Bene non possa imporsi senza violare sé stesso. Il Bene è tale solo se scelto.

Da qui l’iconografia del Bene come fragile: la sua non coercitività lo fa apparire vulnerabile.

2. Yeats e il mondo disallineato

In The Second Coming (1919), Yeats descrive un mondo che ha perso il suo centro, dove “le cose si disgregano” e il caos dilaga. La visione è apocalittica: la storia sembra aver perso l’equilibrio, e ciò che nel passato sembrava stabile è ora minacciato. La frase chiave, spesso citata, è:

The best lack all conviction, while the worst /
Are full of passionate intensity.

Qui Yeats non sta semplicemente dicendo che i buoni sono deboli e i malvagi sono forti: suggerisce che nel tempo della crisi i valori vacillano, e chi agisce con determinazione è chi non riflette, chi non si interroga, chi non è sfiorato dal dubbio morale. Il Bene pensa, pondera, esita: perché è consapevole della responsabilità delle proprie azioni. Il Male non conosce questa esitazione, e per questo appare più deciso, più energico, più efficace.

La debolezza del Bene è dunque una conseguenza della sua coscienza.

Se il Bene non dubitasse, cesserebbe di essere Bene.

3. Tolkien: la forza dell’umiltà

Nel mondo di Tolkien, l’opposizione tra Bene e Male assume una forma chiara e simbolica: Sauron rappresenta il dominio assoluto, il controllo sulla volontà altrui, la tentazione dell’efficienza, dell’ordine, della perfezione come annullamento della libertà. La comunità che gli si oppone è eterogenea, disordinata, fragile, non compatta.

Soprattutto, il compito decisivo non è affidato al guerriero più forte, ma a un Hobbit, creatura che non desidera la gloria né il potere. Frodo è piccolo, fisicamente fragile, privo di competenze belliche. Il suo valore non risiede nella forza, ma nella capacità di resistere alla corruzione. Tolkien rende così esplicita la verità morale alla base del mito: la vittoria del Bene non può essere ottenuta attraverso il potere, perché chi desidera il potere, inevitabilmente, ne è corrotto.

È significativo che Sauron non riesca neppure a concepire che qualcuno possa scegliere di distruggere l’Anello invece di usarlo. Il Male non può comprendere l’umiltà.

La debolezza del Bene non è dunque mancanza, ma differenza di natura:
il Male domina, il Bene custodisce.

4. Stephen King: il Bene come comunità ferita

In The Stand, la peste che annienta la civiltà umana apre lo spazio a una battaglia morale. Randall Flagg, incarnazione del Male, offre sicurezza, ordine, identità. Il Bene si raccoglie invece intorno a una figura fragile: Madre Abagail, anziana, senza potere, senza capacità di imporre la propria volontà.

La sproporzione è evidente:

  • il Male è efficace;

  • il Bene è esitante.

Ma King mostra qualcosa di importante: il Male crea comunità attraverso la paura, il Bene la crea attraverso la responsabilità reciproca. La comunità del Bene è fatta di imperfezioni, fallimenti, contraddizioni — ed è proprio in questo che risiede la sua forza umana.
Il Bene non è perfetto: è fedele.

5. Dune: la fragilità come principio della luce

In Dune, Frank Herbert mette in scena una delle rappresentazioni più incisive del conflitto archetipico tra luce e ombra, incarnato nello scontro tra Casa Atreides e Casa Harkonnen. Non si tratta semplicemente di due casate rivali in una lotta per il controllo della spezia e del pianeta Arrakis; ciò che realmente si fronteggia è due forme di potere: una basata sulla fiducia e la responsabilità, l’altra sulla spietatezza e il dominio. Herbert non presenta questi poli come statici o moralisticamente definiti: li mostra come tensioni interiori, destinate a muoversi, contaminarsi e trasformarsi.

La Casata Atreides porta con sé l’idea che la vera forza non sia nella violenza, ma nella capacità di assumere su di sé il peso delle relazioni. Il Duca Leto non guida attraverso il terrore: governa ascoltando, instaurando alleanze, riconoscendo la fragilità come elemento costitutivo del vivere insieme. Per Leto, comandare significa esporsi: farsi vulnerabile alla lealtà degli altri, accettare che il potere sia sempre rischioso, mai garantito. È proprio questa esposizione a rendere gli Atreides vulnerabili e, allo stesso tempo, moralmente autorevoli. La loro forza è relazionale, non coercitiva.

Gli Harkonnen, al contrario, incarnano una logica opposta: per loro il potere è appropriazione, controllo, sfruttamento. Il Barone Harkonnen non tollera la fragilità, perché la considera sinonimo di debolezza. Il suo dominio si regge sulla paura, sulla manipolazione, sulla riduzione dell’altro a strumento. In questo schema, la luce non può emergere, perché tutto è inghiottito da una razionalità che non conosce limite né responsabilità. La violenza Harkonnen è cieca non perché ignori le conseguenze, ma perché le accetta come inevitabili e persino necessarie.

Paul Atreides si trova esattamente al centro di questo conflitto. La sua formazione, la sua sensibilità, la sua capacità di percepire la paura e la sofferenza altrui, lo rendono inizialmente fragile. Il passaggio nel deserto e l’incontro coi Fremen segnano la trasformazione di quella fragilità in una forma di potere diversa da quella che gli opposti modelli familiari e imperiali sembrano suggerire. Paul comprende che solo chi attraversa il proprio terrore può divenire libero. La Prova della Voce, i riti del deserto, la consapevolezza del dolore collettivo fanno della sua fragilità non una ferita da nascondere, ma il nucleo da cui scaturisce la sua leadership.

E tuttavia, Herbert non consente una lettura semplicemente edificante. Paul vede che la luce, quando si arma per rispondere all’ombra, può a sua volta diventare ombra. Il rischio della figura messianica è quello di trasformare la fragilità originaria — la capacità di sentire — in certezza assoluta, in visione inevitabile, in rivoluzione totale. Paul sa che il jihad che potrebbe scatenare in suo nome sarebbe immenso e distruttivo. Sa che la speranza può rovesciarsi in devastazione.

È qui che il messaggio centrale si chiarifica: il bene non è forte perché invincibile, ma perché continuamente esposto al rischio di non esserlo. La fragilità non è un difetto che la luce deve superare: è ciò che la distingue dalla violenza cieca. Gli Atreides non sono “buoni” in senso morale semplice; sono coloro che accettano di non dominare totalmente. Gli Harkonnen non sono “malvagi” perché crudeli; lo sono perché rifiutano la possibilità stessa della vulnerabilità.

Il conflitto tra le due casate è dunque un conflitto tra due modi di concepire l’esistenza:

  • uno che riconosce che vivere significa sempre avere qualcosa da perdere,

  • e uno che vuole vincere eliminando la perdita, e con essa, ogni legame.

Herbert ci mostra che scegliere la luce significa accettare di essere feriti. E che ogni volta che la luce tenta di diventare invulnerabile, inevitabilmente si trasforma in ombra.

6. Star Wars: la pietà come rifiuto della forza

Nella trilogia originale di Star Wars, l’Impero è la perfetta incarnazione del potere strutturato: eserciti innumerevoli, tecnologia avanzata, capacità di controllo totale. La Ribellione è invece disordinata, vulnerabile, quasi improvvisata.

Luke Skywalker non vince contro l’Imperatore attraverso la forza. La svolta narrativa fondamentale avviene quando rifiuta di uccidere Darth Vader.
La vittoria nasce non da un atto di dominio, ma da un atto di pietà.

È qui che si rivela una verità morale decisiva:

Il Bene non distrugge per affermarsi.
Il Bene trasforma.

La fragilità è la condizione per la trasformazione.

7. Una lettura antropologica: Girard, Eliade, Jung

René Girard

Girard sostiene che le società costruiscono l’ordine attraverso la violenza collettiva contro una vittima espiatoria. La figura della vittima è innocente e indifesa, e per questo carica di significato simbolico. Il Bene, nella nostra cultura, coincide con chi non ha potere, non perché sia sconfitto, ma perché rifiuta la logica sacrificialmente violenta del gruppo.

Mircea Eliade

Eliade ricorda che i miti fondativi non celebrano la forza, ma la capacità di rinascita dopo la sconfitta. La fragilità è la porta del sacro, non la sua negazione.

Carl Gustav Jung

Jung interpreta il Male come la “ombra”, cioè la parte dell’essere umano che rifiuta la coscienza e agisce secondo impulsi immediati. L’ombra è potente perché è semplice; il Bene è complesso perché integra e assume la fatica della libertà.

8. Perché il Bene non può apparire forte

Se il Bene avesse la stessa potenza coercitiva del Male, sarebbe indistinguibile da esso. Il Bene non domina, non schiaccia, non obbliga. Il Bene si offre come scelta.
Perciò:

  • Il Male è rapido → il Bene è paziente

  • Il Male è visibile → il Bene è interiore

  • Il Male è uniforme → il Bene è diverso

  • Il Male è efficiente → il Bene è relazionale

La fragilità del Bene non è debolezza, ma rinuncia al potere come forma di potere più alto. Il Bene appare fragile perché non parla il linguaggio della forza. Il Male si impone perché non conosce il limite; il Bene si trattiene perché riconosce che senza limite non può esserci libertà. Per questo, in ogni grande narrazione, il Bene sta per soccombere all’ultimo momento: perché il suo trionfo non può essere scontato, né garantito, né imposto.

La fragilità del Bene è la condizione per cui il Bene può essere scelto.
E la possibilità stessa della scelta è ciò che rende il Bene umano, reale, trasformativo.

Commenti

Post popolari in questo blog

Maggie's Farm termina la storia editoriale durata ben 16 anni

Astral Weeks di Van Morrison : genesi di un capolavoro

Una battaglia dopo l’altra di PT Anderson