Il primo bacio ascoltando Bob Dylan


A volte, preso da profonda, inspiegabile malinconia, inizio a ricordare:

Il primo bacio dato e il primo bacio ricevuto. La prima nota al liceo. Il primo anno quando venni rimandato in matematica e in inglese. Il primo Levi's 501, che mi stava malissimo, ma per me non aveva importanza, mi piaceva l'idea. Il primo giorno di scuola media, lontano dai compagni delle elementari e proiettato in una dimensione completamente nuova, diversa. Forse bella, ma di certo aliena. 

Crescere durante gli anni Novanta era una cosa diversa rispetto a oggi. Non so dire se sia meglio o peggio, anche perché non sono capace di interpretare i desideri e le sensazioni dei ragazzi che sono nati e cresciuti dopo di me. Ma sono Nato in tempo per provare alcune cose. Mi ricordo il primo videoregistratore tre testine Panasonic, il primo Walkman Sony con l'autoreverse, la BMX rossa, i vinili che erano già passati di moda, top 20 e le tette enormi di Emanuela Folliero, i capelli della Panicucci, i miei compagni di scuola impazziti per Beverly Hills 90210. Non sono mai riuscito a vederlo perché a casa mia eravamo di sinistra e c'era Michele Santoro con Samarcanda. Ho perso quel treno. Non è più passato, ma ho fatto in tempo per vederne e prenderne altri. I treni su cui sono riuscito a salire portavano a Roma per il Concertone del Primo Maggio. Erano treni che aprivano porte, per un certo verso, magici, per altri forse, tragici. Non me lo ricordo. Mi ricordo però che Bob Dylan a differenza del Dylan di Beverly Hills e del fumetto di Sclavi si trovava già in casa mia. No, mio padre non era un suo fan e nemmeno mio fratello maggiore, così come mio cugino. Lui era un grande appassionato di musica, ma aveva un background differente. Per mia sfortuna era di estrazione punk e privilegiava le cose rumorose, alternative e scrause. Ascoltava la wave italiana e il free jazz, ma non era per niente estimatore di Bob Dylan. Quella è stata croce e delizia. Avere la fortuna e la possibilità di scoprire e arrivare per gradi, alle cose belle. Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà, diceva Guccini. Un' opportunità che oggi è preclusa a tanti ragazzi. Perché sono cambiate molte, troppe cose. Frequentavo il liceo e c'era un certo fermento in città. O se preferite: C'era musica nei caffè la notte e la rivoluzione era nell'aria. Improvvisamente iniziai a leggere romanzi, per metabolizzare una cotta non corrisposta,  per una compagna di classe. Lei leggeva di tutto. Soprattutto letteratura dei primi del Novecento. In quel tempo scambiavamo opinioni su parecchi libri e importanti autori. A scuola la professoressa Galasso ci spiegava chi fossero Joyce, Kafka, Thomas Mann, ma soprattutto Marcel Proust. Sono stato un tipo fortunato. Io ai tempi scrivevo già, ero un grafomane che imbrattava certi quadernini. Pensieri e parole: impressioni di un aprile ormai lontano. Sono arrivato a Dylan per via indiretta, attraverso il cinema che era una mia passione già durante la fase prepuberale, ma soprattutto leggendo autori come Jack Kerouac e William Shakespeare. In realtà eravamo molto più onnivori e quasi mai snob. Ci piaceva ogni giorno scoprire qualcosa di nuovo. Poteva essere Kurt Cobain, che a me non interessava, oppure Mark Knopfler, Sting, Kubrick o Scorsese. Ci scambiavamo libri, cassette, informazioni e riviste. In modo ossessivo. Bramavamo informazioni e le edicole erano un'altra grande risorsa. Lì potevi trovare riviste, giornali, i primi cd delle raccolte De Agostini, ma principalmente era un ponte che sapeva di buono, che odorava di carta, di libertà. Gli anni Novanta, a parte la moda, quei quattro-cinque film stranoti, dischi e libri di tendenza, erano un momento in cui i giovani sapevano interagire e scambiarsi informazioni utili e futili, senza soluzione di continuità. Era un vero tam-tam, e non era richiesta nessuna tessera per entrare. Funziona a ingresso libero. La tessera era quella dell'abbonamento del bus urbano, del videonoleggio, della biblioteca. Quella interna a scuola funzionava anche senza tesseramento. Potevi prendere in prestito un numero massimo di due libri mensili. Io riuscivo a prenderne sei, perché utilizzavo i miei compagni che non leggevano per raggiungere un numero più ampio e disporre di maggiore scelta. Così ho letto nello stesso momento On the road e 1984, La metamorfosi e Gente di Dublino, Tonio Kroger e All'ombra delle fanciulle in fiore. Un libro che ci piaceva leggere era La coscienza di Zeno, anche se io avevo sviluppato, in quel momento, una certa ossessione per Shakespeare. Sapete sono sempre stato un inguaribile romantico, nostalgico sentimentale. Ora raramente lo riconosco a me stesso, ma davvero riuscivo a essere sempre positivo, attivo, adorabile. Peccato che nessuno sembrava esserne colpito o interessato. Perché fortuna volle che a quel tempo andassero di moda: dark, punk, metal e grunge. In pratica tutte cose che non avevano presa su di me. Mi appassionai però al blues, al jazz, a un certo tipo di rock and roll. In pratica ero un disadattato, solo che non me ne rendevo conto, dato che ero preso dal fuoco sacro della conoscenza, della scoperta compulsiva. In quel frangente, mi imbattei in un certo Bob Dylan. Per via principalmente indiretta attraverso le canzoni di Neil Young, Bruce Springsteen ed Eric Clapton. Soprattutto per tramite delle corde infuocate di Mark Knopfler. C'era questa canzone: All Along the Watchtower, e poi ancora un'altra, Forever Young e un'altra, Mr. Tambourine Man. Chi le scrive 'ste cose, questi titoli e questi pezzi così lunghi, magnetici e perfetti, nella loro grossolana imperfezione? Sembrava un artigiano che ti crea qualcosa da un pezzo di legno. Uno scultore che lavora e plasma il metallo. Sembrava un pittore, ma non di quelli che creano tele e opere d'arte, piuttosto del tipo che più umilmente ti tinteggia casa. Dylan però non stava tinteggiando la mia stanza, stava incidendo a chiare lettere un tarlo nella mia mente. Stava creando un solco, che non sarebbe stato facile cancellare, rimuovere. La porta era spalancata e non si poteva più chiudere. Anzi non c'era proprio più la porta. Togliete le serrature dalle porte, togliete anche le porte dai cardini. Mi piaceva già Jim Morrison e andavo matto per il suono dell'organo di Ray (Manzarek) ma in quel suono metallico e rugginoso della voce di Dylan c'era dell'altro. C'era coraggio, saggezza, forse incoscienza. Non avevo mai sentito una cosa simile e non conoscevo ancora i testi. 

Quando su Rai 3 vidi un'esibizione live di Shelter from the Storm, ebbi davvero una  lieve scossa elettrica. Ancora oggi sostengo sia una delle cose più violentemente poetiche che un adolescente possa ascoltare. Dylan era arrivato. Avrei impiegato ancora del tempo per metabolizzarlo e rendermene conto. Lo feci ascoltando Springsteen, Neil Young e The Band. Ci arrivai per gradi. Non è facile capire a volte e nemmeno apprezzare qualcuno che ti solleva e ti percuote, senza motivo. Senza darti alcuna possibilità di scelta. Per me Dylan non è stata una scelta, non è capitato di ascoltare e non ha avuto un inizio. Era invece uno stato mentale, confusionale, caotico. Tempestoso. Come Shakespeare, come Kafka. Come la migliore letteratura che un giovane possa scoprire con mente avida e occhi iniettati di sangue e furore. Finché ci sarà una parte del mio cuore che ricorderà tutto questo, la mia vita avrà un senso, la mia esistenza avrà uno scopo. Coltivare il bello, perseguire il sentiero della scoperta e della conoscenza. Conoscenza dove sono piantati i pilastri di questa terra, là dove tende la coscienza del mondo, si alza il vento e straripano i fiumi, come direbbe il buon Thomas Wolfe


Dario Greco

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